Niyama, le prescrizioni personali

Niyama è secondo passo dello Yoga descritto negli Yoga Sutra di Patanjali.

I Niyama sono le prescrizioni personali, cioè regole che bisogna rispettare con sé stessi, che ci aiutano a costruire il nostro carattere. Ci consentono, inoltre, di passare dagli aspetti più grossolani di noi stessi alla verità nel nostro profondo.

A differenza degli Yama, che mettiamo in atto quando le circostanze esterne ci presentano l’occasione, i Niyama vanno applicati sempre, perché sono regole di purificazione degli aspetti fisici, energetici e mentali. Stabiliscono la disciplina della vita quotidiana.

Ci conducono, inoltre, verso un rapporto più positivo con noi stessi, una forte connessione con noi stessi che ci consente di formare relazioni autentiche e sostenibili con gli altri.

I Niyama sono cinque: Saucha, Santosha, Tapas, Svadhyaya and Isvara Pranidhana.

1) Sauca (pulizia)

È la pulizia del corpo e del vestito che indossiamo, ma anche del pensiero e delle intenzioni. La pulizia aiuta a ridurre le impurità e le tossine dal corpo e dalla mente, attraverso un’alimentazione corretta, esercizi adeguati e integrità emozionale.

L’Hatha Yoga Pradipika prescrive una serie di tecniche di pulizia (shatkarma), da effettuare ancor prima di iniziare la pratica delle asana:

  • Neti, pulizia nasale, che comprende sia jala neti  che sutra neti;
  • Dhauti, pulizia del tubo digerente;
  • Nauli, massaggio addominale;
  • Bhasti, pulizia del colon;
  • Kappalabhati, respirazione per purificare e vitalizzare i lobi frontali;
  • Trataka, concentrazione su un piccolo oggetto, di solito una candela.

Oltre a queste tecniche di pulizia, ci sono anche tanti altri modi per portare più Saucha nella nostra vita, dentro e fuori il tappeto di yoga.

Il nostro ambiente spesso riflette il nostro stato d’animo. Quando la nostra casa è disordinata, la nostra mente è disordinata. Quando la nostra casa è pulita ed abbiamo solo i beni di cui abbiamo realmente bisogno, abbiamo la sensazione di avere spazio per respirare, ci sentiamo bene e la nostra mente è più chiara e serena.

Andare a lezione di yoga con corpo, vestiti e tappetino puliti, soprattutto se frequentiamo un corso serale di yoga, è un segno di rispetto verso noi stessi, la nostra pratica e quella degli altri, l’insegnante e la scuola che ci ospita (non ti meravigliare se scrivo queste parole, ma nella mia esperienza di praticante e di insegnante, ho visto e “sentito” di tutto… 😐  )

Inoltre, fare una doccia prima di un corso serale può aiutare anche a “lavare” la nostra giornata da stress e tensioni di lavoro per partecipare  ad una lezione più sereni e calmi.
E’ inoltre buona norma mettere scarpe, borsa, indumenti e cappotto in un luogo in cui l’insegnante e gli altri studenti non possano inciampare.

All’interno della pratica di Asana (posizioni yoga) e Pranayama (tecniche respiratorie), Saucha può essere perseguito ricercando l’armonia e l’eleganza dei movimenti, fissandoci più sulla qualità di ciò che facciamo piuttosto che sulla quantità.

Mangiare sano e biologico è considerato dallo yoga un’alimentazione “pulita”. Se gli alimenti contengono conservanti, additivi e pesticidi, il nostro corpo deve lavorare molto per eliminare queste sostanze chimiche, prima ancora di essere in grado di assorbire i principi nutritivi da ciò che mangiamo e beviamo.

Se non è possibile mangiare biologico, ricordiamoci sempre che “siamo quello che mangiamo” e, quindi, cerchiamo di avere la consapevolezza di ciò che stiamo consumando, e fare scelte consapevoli per permetterci di vivere in modo sano e felice.

Anche la nostra mente deve rispettare Saucha perché è molto potente ed ha un grande impatto sulla nostra vita. I pensieri generano flussi di energia ed è importante esser consapevoli verso cosa vengono indirizzati (questa consapevolezza appartiene ad ogni Yama e Niyama)
Perciò avere pensieri “puliti” significa non pensare male, non giudicare sé stessi e gli altri, ma esser positivi nei pensieri e attivi nelle azioni.

2) Santosa (appagamento, sapersi accontentare)

Santosha si traduce con “appagamento” e, come tutti sappiamo, sapersi accontentare non è la cosa più facile da praticare.
Quante volte abbiamo detto o pensato: “sarei più felice se…”? Ad esempio, spesso leghiamo la nostra felicità alla perdita di peso, ad un lavoro diverso, all’incontro con qualcuno oppure al conseguimento perfetto di quella posizione yoga che dobbiamo assolutamente raggiungere.

Volersi migliorare è sempre positivo e dobbiamo farlo sempre! Ciò che non dovremmo mai fare, invece, è basare la nostra felicità solamente su uno scopo o su una meta che “dobbiamo” assolutamente raggiungere.

Santosha ci insegna ad accettare e ad apprezzare ciò che abbiamo e ciò che siamo già, pur mantenendo il legittimo desiderio di migliorarci, senza porci obiettivi difficili da raggiungere che ci creano solo stress. È meglio fare un passo indietro e tornare in quella situazione che ci fa star bene per realizzarci con quello che abbiamo.

Sembra una cosa facile da fare, invece vogliamo sempre di più, non smettiamo mai di lottare per ottenere ciò che desideriamo, anche se, spesso, si tratta di esaudire un desiderio che ci dà una felicità temporanea.

Dopo aver conseguito il nostro scopo, torniamo ad esser insoddisfatti e, quindi, iniziamo una nuova “lotta” per conseguire un nuovo obiettivo che ci dà una nuova felicità temporanea.
È una spirale senza fine in cui si alternano felicità e tristezza, serenità e paura! Ma è nella natura umana comportarsi in questo modo perchè è quello che ci ha aiutato a sopravvivere come razza umana!

Ma allora, come possiamo ottenere una promozione, la perdita di peso, una nuova auto, acquistare una casa o incontrare qualcuno e innammorarci per renderci felici, senza rimanere incastrati in questa spirale perversa? Come possiamo sfuggire a questa spirale e muoversi verso il concetto di Santosha?

La risposta sta nel non-attaccamento o “Vairagya” e l’apprezzamento del nostro vero sé.

La Bhagavad Gita, importante testo yogico, ci insegna a non cercare pace e felicità al di fuori di noi stessi perché sono già dentro di noi.
Quando ci affidiamo a cose che sono fuori di noi per ottenere felicità e libertà, inevitabilmente, ci leghiamo ancora di più al malcontento perché il nostro ego, dopo aver sperimentato la gioia, il dolore, la perdita, il desiderio, l’avidità e la felicità, si attacca sempre più a queste esperienze per riviverle.

Oltre a considerare quali obiettivi sono veramente importanti per noi, dobbiamo accettare l’idea che la nostra vita è soggetta a cicli e a modifiche, come pure il mondo intorno a noi. Il tempo, le stagioni, i cicli di vita, il nostro corpo e la nostra mente sono soggetti a modifiche, ma chi siamo veramente (la nostra vera essenza) è immutabile e questa consapevolezza è sufficiente per renderci forti e stabili verso i cambiamenti della vita.

Sul tappetino di yoga possiamo sperimentare, su noi stessi, tutto quello che ho detto finora. Per esempio, spesso accade che, guardando gli altri durante la lezione di yoga, non ci sentiamo abbastanza bravi. Questo sentimento ci fa soffrire e quindi cerchiamo di forzare le posizioni per raggiungere quello che riteniamo il “giusto” livello di esecuzione. Ma, se il nostro corpo non è ancora pronto per salire ad un altro livello di pratica, risponderà contraendosi e diventando rigido perché cercherà di difendersi contro una nostra forzatura. E più lavoriamo con un sentimento di attaccamento e di paura per non esser abbastanza bravi, più ci allontaneremo dal livello che vogliamo raggiungere.
Invece, se partiamo da un sano desiderio di migliorare la nostra pratica solo per il piacere di farlo, senza l’ansia di dimostrare qualcosa a noi stessi o agli altri, accettandoci per quello che siamo (e quindi anche con i nostri limiti), il nostro corpo risponderà lavorando con noi e ci accompagnerà nel miglioramento della nostra pratica.

La lezione di yoga è il momento giusto per apprezzare noi stessi per quello che siamo, per prender atto del livello che abbiamo raggiunto (e quindi della strada che abbiamo percorso) per guardare a cosa possiamo fare per migliorarci nel futuro.
Il nostro corpo ci ringrazierà e quando avremo abbandonato “la necessità” di essere più flessibili e più forti, lo diventeremo senza sforzo e quando meno ce lo aspettiamo.

Possiamo portare questo approccio alla pratica di yoga anche nella nostra vita di tutti i giorni.

3) Tapas (disciplina, passione)

Tapas si traduce con “disciplina”. La parola Tapas deriva dalla radice sanscrita verbo “tap”, che significa “bruciare”, ed evoca un senso di “disciplina di fuoco” o “passione”.
In questo senso, Tapas può significare coltivare un senso di auto-disciplina, passione e coraggio al fine di bruciare le “impurità”, in senso fisico, mentale ed emotivo per aprire la strada alla nostra vera grandezza.

Tapas accresce il nostro desiderio di crescita personale e ci ricorda di quanto amiamo la nostra pratica di yoga!

La “disciplina” non va intesa, però, come un mezzo per spingerci verso una pratica di yoga più difficile in senso fisico.
Tapas è un aspetto della saggezza interiore che ci incoraggia a praticare anche quando non ci sentiamo bene o non ne abbiamo voglia; è Tapas l’abitudine a non bere troppo o a mangiare cibi sani; è Tapas quando “vengono bruciati” i modelli di pensiero negativo e le abitudini malsane; è Tapas quando svolgiamo il nostro lavoro e ogni attività quotidiana al meglio delle nostre possibilità; è Tapas quando stabiliamo un tempo per la nostra pratica e rispettiamo tale decisione; è Tapas quando lavoriamo, senza scoraggiarci, con tempi e modi adeguati, per arrivare ad una posizione yoga più avanzata. È Tapas che ci fa progredire nella nostra pratica yoga, ma il suo insegnamento ci è utile anche nella vita di ogni giorno. Quando, grazie a Tapas, riusciamo ad eseguire una posizione che ci sembrava tanto difficile e che in passato non riuscivamo assolutamente ad effettuare, abbiamo imparato che possiamo avere lo stesso approccio anche di fronte a situazioni di vita difficili, senza ascoltare la nostra voce interiore che ci dice che “non siamo abbastanza forti o bravi”. Avere il coraggio di non ascoltare la voce interiore che ci scoraggia è un elemento di Tapas che brucia i pensieri negativi e porta con sé fiducia e forza interiore.
 

4) Swadhyaya (studio di sé stessi)

La pratica yoga va accompagnata con la lettura di testi appropriati che consentono di guardare dentro sé stessi. Non si tratta di uno sterile esercizio intellettuale, ma è necessario fare una diretta esperienza di queste letture affinché si riesca a superare l’ego e il sé condizionato, per giungere al sé consapevole perché la consapevolezza è il passo necessario verso ogni tipo di trasformazione.

Sudiare sé stessi, fare una ricerca interiore, significa riconoscere le nostre abitudini e i nostri processi di pensiero per renderci conto se le nostre azioni e i nostri pensieri sono lontani da ciò che veramente siamo.

Quando ascoltiamo l’ego, facciamo spesso cose che non si “allineano” con i nostri valori o le nostre intuizioni. Il nostro “io” è interessato alla sopravvivenza, che di solito significa ottenere ciò che vuole, dimostrando che è davvero “il migliore”, senza tener conto delle conseguenze che potrebbero avere su di noi.
Sudiando il nostro “sé”, diventiamo consapevoli delle azioni e dei pensieri che ci danneggiano, ma anche di quelli che ci servono per portarci più vicino a quel processo di “unione” con il vero “Sè”, che poi è il significato dello yoga.

Per fare questo viaggio interiore, quali testi è utile leggere? Tradizionalmente, un praticante di yoga dovrebbe conoscere testi fondamentali come Yoga Sutra di Patanjali, Bhagavad Gita e Hatha Yoga Pradipika. Però ci sono tantissimi altri affascinanti testi sullo yoga che consentono di approfondire la nostra pratica, come pure molti articoli online. Ma sono utili anche i libri di psicologia, di narrativa e di poesia…
Tuttavia, leggere non basta! Quando leggiamo un testo, cerchiamo anche di riflettere su di esso, cioè cerchiamo di capire come quelle parole “risuonano” in noi, come si collegano alle nostre esperienze, perché comprendere ciò che apprendiamo attraverso un testo, permette alla nostra pratica di diventare parte della nostra vita.

Nella pratica delle Asana, Swadhiyaya può essere coltivato attraverso l’accurata attenzione agli allineamenti del corpo, alle proprie effettive condizioni psico-fisiche del momento, evitando l’insinuarsi della competitività nell’esecuzione delle posizioni.

Se studiamo le nostre abitudini sul tappetino di yoga, possiamo capire anche le nostre abitudini nella vita quotidiana, perché il modo con cui si pratica lo yoga riflette molto le nostre abitudini di vita, i nostri modelli di comportamento e di pensiero.
Quando siamo sul tappeto di yoga, non abbiamo le solite distrazioni quotidiane (telefono, computer, e-mail, TV…) e quindi possiamo prestare attenzione completamente a noi stessi e capire dove sono i nostri problemi.
Il respiro breve, superficiale che si ferma nella parte alta del busto è, spesso, un segnale che siamo stressati o preoccupati per qualcosa, o che ci stiamo spingendo oltre i nostri limiti in modo esagerato. Se notiamo questo tipo di respiro, chiediamoci perché siamo stressati o preoccupati, o perché abbiamo la necessità di spingerci oltre i nostri limiti senza una sana gradualità (che cosa o a chi vogliamo dimostrare di esser bravi?)
La mascella, la fronte, il collo, le spalle e la parte superiore della schiena sono zone del nostro corpo in cui tendiamo a bloccare le nostre paure e le nostre preoccupazioni. Perciò, durante la pratica, se osserviamo queste tensioni, chiediamoci perché sono presenti e quali pensieri sono nella nostra testa.

Se il tempo dedicato allo Yoga sono gli unici momenti in cui diamo il permesso a noi stessi di fermarci, può accadere che, proprio quando siamo sul tappetino di yoga, la nostra mente decida di “scaricare” i suoi milioni di pensieri vorticosi. Se notiamo che la nostra mente diventa particolarmente intensa durante la nostra pratica di yoga, non cerchiamo di bloccare o di ignorare i nostri pensieri, ma lasciamoli fluire, senza giudicarli perché impareremo molto su di noi. Infatti, realizzare quali pensieri entrano nella nostra mente, ci aiuta a prendere coscienza di noi stessi! 🙂

La pratica di Svadhyaya è utile sia sul tappetino di yoga che nella vita, ma non è facile perché richiede Satya (sincerità, onestà) per vedere noi stessi in modo onesto, Tapas (disciplina) perché guardarci in modo onesto non è sempre qualcosa che ci piace fare e Ahimsa (non violenza) perché dobbiamo guardarci senza giudizio o critica.

“Lo yoga è il viaggio del sé, attraverso il sé, per il Sé” – Bhagavad Gita

5) Isvara Pranidhana (abbandono)

Isvara Pranidhana significa “arrendersi al volere divino”. Affrontare il proprio percorso spirituale secondo questo principio, garantisce la conoscenza e la liberazione in vita.

Questo Niyama ci fa pensare all’asceta che rinuncia al mondo. Tuttavia, ci sono diversi modi in cui interpretare questo sutra perché lo yoga non obbliga nessuno a credere in una religione, ma è una pratica in cui anche un non credente può sentirsi a suo agio.

Isvara Pranidhana può significare coltivare un rapporto profondo e fiducioso con l’Universo, con la Natura o con la Coscienza collettiva (nelle Upanishad, la parola “Isvara” significa “uno stato di coscienza collettiva”), offrendo ogni nostra azione a servizio di qualcosa di diverso e più grande di noi.
Per la Baghavad Gita non è necessaria la rinuncia a tutte le azioni e scegliere la via ascetica. Chi vuole rimanere nel mondo e vuole avere una famiglia, lavorare, ecc., ha anch’egli una possibilità di liberarsi perché, per la Baghavad Gita, la cosa fondamentale è il distacco: “essere nel mondo senza essere del mondo”.

Nuotare contro corrente porta all’immobilismo, all’indurimento, alla compressione di sé, ad un inutile dispendio di energia e, quindi, alla sofferenza. A volte, essere coraggiosi significa lasciar andare, abbandonarsi alla corrente e perdere ogni supposto controllo sugli eventi della propria vita, rimanendo aperti alla vita per viverla così come si presenta.

Rimanere rigidi nei nostri modelli comportamentali e di pensiero, affezionati alle nostre abitudini, significa vivere una vita limitata. Tuttavia, lasciar andare è estremamente impegnativo, perché significa trascendere l’ego che farà il possibile per mantenere il controllo, in quanto senza condizionamento, preoccupazioni e giudizi, non può esistere.

Lasciarsi andare e aprirsi alla vita per viverla così come si presenta, richiede grande fiducia nel nostro Io più profondo, nelle nostre intuizioni e coraggio di esprimere noi stessi per quello che siamo, con tutte le nostre “imperfezioni perfette”.
E’ questa la strada della libertà! 😀

Isvara Pranidhana, nella pratica delle Asana, può esser visto in due modi:

1) arrendersi/abbandonarsi al riposo

Capire quando, dopo la nostra pratica di yoga, abbiamo bisogno di riposo, senza ascoltare la nostra voce interiore che dice di andare avanti, di non esser deboli, significa avere comprensione di noi stessi e rispetto per i nostri corpi, e permettere alla nostra pratica di sostenerci per tutta la vita.
In questo caso, per praticare con Isvara Pranidhana, abbiamo bisogno di Ahimsa (non violenza) e di Satya (sincerità, onestà).

2) arrendersi/abbandonarsi alla postura

A volte, la pratica delle Asana ci insegna a trovare “conforto nel disagio”. Sperimentiamo questa situazione quando, raggiunto il nostro limite, cerchiamo di imparare un modo per affrontare situazioni difficili.

Lo Yoga ci fa sentire bene, ci guarisce quando stiamo male e ci aiuta a trovare la luce quando tutto ciò che vediamo è buio, ma ci mostra anche di quale pasta siamo fatti quando le cose diventano difficili.
Quando siamo in un’Asana e siamo arrivati al nostro consueto tempo-limite, ma decidiamo di mantenerla ancora per 2-3 respiri nonostante sia diventata impegnativa, invece di irrigidirci e mantenerla con la forza di volontà (che porta inevitabilmente a fare respiri brevi o addirittura a trattenere il respiro, con uno sforzo immane per tutto l’organismo), facciamo un profondo respiro e abbandoniamoci all’Asana. Può accadere qualcosa che ci sorprenderà moltissimo: il corpo ci dimostra che siamo più forti di quello che la nostra mente credeva e proviamo nuove sensazioni che non avevamo mai sperimentato in precedenza.
Per questo motivo, nello Yoga, non si finisce mai di imparare! 😀 Con il progredire della pratica, c’è sempre spazio per una nuova conoscenza, per un nuovo sentiero da percorrere.

Isvara Pranidhana è strettamente legato ai concetti di “lasciar andare i frutti delle nostre azioni” e di “non-attaccamento”, che sono il punto focale della Baghavad Gita.
Se abbiamo messo tanto impegno in un progetto o in un lavoro che è importante per noi, non dobbiamo preoccuparci di ciò che potrebbe accadere in futuro, soprattutto su questioni di cui non abbiamo il completo controllo perché queste preoccupazioni ci creano “dukkha”, cioè sofferenza che non ci consente di essere pienamente impegnati nell’azione che stiamo facendo, in quanto la nostra mente e, quindi, la nostra energia, è rivolta a ciò che potrebbe accadere in futuro.
Questa consapevolezza ci consente di riconoscere che siamo in grado di fare del nostro meglio in ogni situazione (non possiamo fare di più del nostro meglio!) e, quindi, dobbiamo impegnarci pienamente in quello che stiamo facendo, portando tutte le nostre energie nel momento presente. Ciò che succederà successivamente appartiene al futuro e ce ne occuperemo quando accadrà 😀

Om Shanti,

Simona